Sono stati due anni difficili quelli appena trascorsi. Gravi, dolorosi. Nei quali ciascuno ha sperimentato in diversi modi il senso del rifiuto, dell’abbandono, della chiusura.
Anche come comunità cristiana si sono vissute queste esperienze, probabilmente nell’ordine inverso: dalla chiusura forzata legata alle pratiche liturgiche e devozionali, al crescente abbandono della pratica ecclesiale, al rifiuto stesso del senso di comunità in un cammino di fede che rischia sovente di farsi individualista e autoreferenziale.
È del resto, quest’ultima, la deriva che va prendendo la ricerca di spiritualità un po’ a la carte, appagamento di un desiderio consumistico senza alcuna esigenza di verità e senza alcun bisogno di mediazione.
Non è così per la fede popolare che è invece specchio di quel desiderio genuino di ricerca di Dio che sa trovare nella mediazione dei Santi o di Maria il veicolo di una più facile comprensione del Mistero di amore che lega ciascun uomo a Gesù Cristo.
Dopo due anni abbiamo ripreso a vivere con pienezza le forme di devozione popolare che nella nostra città si legano profondamente alla figura di Maria: dalla Madonna del Carmine il 16 luglio, alla Madonna di Costantinopoli il 24 luglio, alla Madonna della Pace ai primi di agosto, per concludere l’11 agosto con la Madonna delle Grazie.
Il preludio è stato però già a giugno con la Solennità del Corpus Domini e con la festa patronale dei Santi Apostoli Pietro e Paolo.
La prima, autentica benedizione tra le vie della città, salutata dai ricami delle coperte sui balconi e dalle raffigurazioni dei tappeti floreali, la seconda una continua riscoperta, che non soffre della concorrenza devozionale mariana, ma che invece dona ad essa fondamento evangelico e ne fa da apripista.
Pietro e Paolo rappresentano l’ardore e le debolezze che caratterizzano il cammino di fede di ciascuno di noi, Maria la cura e la custode di quel cammino che con profonda tenerezza di madre ci mostra la gratuità dell’amore del suo Figlio.
Ecco che allora la devozione, la tradizione come testimone di quel tratto identitario che caratterizza il sentirsi stesso comunità, sono in grado di andare oltre le barriere delle distinzioni e delle contrapposizioni.
Un senso di appartenenza che va sempre coltivato, mai provocato; che va accompagnato, mai svilito.
Ed allora, dopo due anni, di nuovo il popolo, la folla, le processioni, la visita, l’accoglienza, la preparazione spirituale ed emotiva all’incontro e al momento della festa.
Un cammino “sospeso”, mai interrotto; come i tanti fiumi del nostro Cilento che seguono il loro letto, a tratti scavato negli antri della roccia, per riaffiorare poi in superficie con maggiore freschezza e vigore.
Di nuovo ad allestire e preparare le strade, gli altarini, a fare visita alle Chiese, a rivolgersi con fiducia e speranza all’amore di Dio che assume il volto materno di Maria e quello fraterno di Gesù.
Di nuovo i canti, i rosari, le nenie, le preghiere, i momenti di raccoglimento e quelli ludici.
Lasciamo quindi che i semi di speranza attecchiscano nel cuore di ciascuno, attecchiscano nelle nostre case, nei luoghi di lavoro, nelle palestre umane e associative.
Lasciamo che attecchiscano nel cuore della nostra comunità locale e nazionale, negli scenari internazionali in cui, di fronte alle atrocità dell’odio e delle guerre, non sono mancate le risposte di amore e di solidarietà.
La speranza cammina sulle gambe degli uomini e delle donne di buona volontà; cammina, appunto, come nelle nostre processioni, affidandosi al mistero dell’amore.
Ripartiamo da qui; ritorniamo a sperare, ritorniamo a vivere, anche attraverso la fede popolare, il desiderio di una comune fraternità.
Vito Rizzo