«Tu scendi dalle stelle, o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo…».
Le note dell’antica canzone si levano davanti ai presepi di chiese e case che il fascino della memoria ancora conserva, estasiando i bambini e con loro gli uomini e le donne che conservano un cuore puro. Correva l’anno 749 (o 754) dalla fondazione di Roma, quarantesimo del regno di Augusto, trentaseiesimo di quello di Erode, in una notte, una delle tante notti che si sono succedute a miliardi nel ritmo del tempo, in un posto determinato fra i tanti possibili, Betlemme, una luce si accese nelle tenebre per l’eternità, l’invisibile divenne visibile, offrendosi agli occhi, alle mani, al cuore, al tragico e stupendo destino di ogni uomo, e lo vedono la madre, Maria, con il trasalimento di ogni madre, che si china sul figlio sbocciato dal suo corpo, lo vede il padre, Giuseppe, che è tale e non è tale. Cantano gli angeli e vengono i pastori. Lo vedono anche i magi d’oriente che poi spariscono portandosi dentro la visione misteriosa che ha animato la speranza del loro viaggio e che ora custodiranno per sempre. E noi riusciamo a vederlo? Correva l’anno 2022 dalla nascita di Gesù: recandosi in dicembre a Betlemme, con la guida della stella, si ha a che fare con vistose contraddizioni perché sotto gli ulivi di Gesù non è più tempo di preghiere e forse si affievolisce anche la speranza, non è più tempo né di apostoli, né di predicatori, né di martiri; si ha l’impressione che in questa parte del mondo così intrisa di divine presenze il peccato abbia un peso e un effetto più pesante che altrove. In questo clima di memorie dense o rarefatte è importante non perdere di vista la stella, la fantasia le vola incontro: basta questa immagine così ben collocata nella dimensione universale dell’uomo, fragile ma divino, basta essere così capaci di vibrazioni poeticamente genuine per restituire alla memoria il senso cristiano degli eventi, stella compresa, che ci fa volgere lo sguardo ad oriente, sulla rotta di un evento che 2022 anni fa cambiò la storia del mondo. Quella stella è un invito benefico per un viaggio sulle sponde del lungo fiume della cristianità fino alle sue sorgenti, un viaggio che ha come meta Betlemme, intensa di odori forti, nel muschio delle grotte, nel verde delle oasi, sul mercato antico di voci e di mercanzie, per scoprire, a partire dal suo stesso nome che significa «casa del pane», la poesia del Natale diversa dalla prosa consumistica del nostro mondo. Natale già festa del sole che vince (sol invinctus di romana memoria) e ora festa della vita che nasce. Una festa che pur variando attraverso i secoli è sempre rimasta per credenti e laici il giorno “più importante” (sic! Per noi cristiani chiaramente la Pasqua), sicuramente il più sentito, dell’anno. Un modo bello e significativo di accogliere colui che è la figura centrale del cristianesimo, della storia dell’occidente e forse dell’intero mondo: Gesù di Nazareth, ma che nasce nella mangiatoia di una stalla, una stalla vera, diventata poi lieto portico leggero nella pittura cristiana che non riflette più la miseria, lo sporco, il buio, «al freddo e al gelo». Una stalla vera, divenuta poi nella fantasia dei figurinai moderni un presepio confezionato con diversi materiali, ma pulito e gentile, elegante, «grazioso di colore, con la mangiatoia linda e ravviata, l’asinello estatico e il compunto bue e gli angeli sul tetto col festone svolazzante e i fantaccini dei re coi manti e dei pastori coi cappucci, in ginocchio ai due lati della tettoia», sogno dei novizi, lusso dei curati, balocco dei bambini, «vaticinato ostello» manzoniano. Un stalla che divenne sepolcro al Getsemani, una stalla che divenne catacomba nei primi periodi cristiani, una stalla che diventa favelas o campi nomadi nelle moderne metropoli, una stalla, culla del re della pace, che diventa macerie e rifugio sotto le bombe nelle guerre che purtroppo continuano ad imperversare, una stalla di sacrificio e di sofferenza che diventa… una stalla: che «clinica di lusso per Gesù!», il quale «da ricco che era si fece povero» non considerando «un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso, divenendo simile agli uomini, apparso in forma umana umiliò se stesso…», facendosi anche lui «casa di polvere e di fango», offrendosi al rischio di essere uomo, con l’ostinazione di chi ama e non ci può far nulla, non può districarsi dall’incantesimo dell’amore, moltiplicando i gesti e i doni d’amore; anche se ha molteplici prove dell’infedeltà dell’amato, continua a riverberare su di lui il calore dolce del suo volto amico. Il fievole vagito di una grotta diventa voce di «una moltitudine in festa fino ai lati dell’altare», perché è nato Gesù di Nazareth: «chi era costui?». Per tanti il figlio di Dio che si fa uomo, per tanti simbolo del mistero, della dignità e dell’importanza della vita, per tanti uomo portatore di tutti gli interrogativi e le inquietudini attuali, cosciente «di ciò che abita nel cuore dell’uomo». Il suo nome risuona sempre nella storia del mondo, meno le sue scelte e il suo messaggio che il vento di questa stessa storia sembra portare via o soffocarne la voce. Ma il vagito di quella nascita, che sorprese per strada due poveri genitori, il suono di quella voce fattasi adulta, dolce e imperiosa, il grido inaudito a voce alta sulla croce raggiunge ancora questo nostro mondo dilaniato dall’odio ma assetato d’amore, di un amore incarnato. E molti pensando a lui rinascono alla speranza, indomita e strenua speranza. Egli porta con sé un’idea di Dio, frutto della sua esperienza, di un Dio non dei grandi eventi ma delle piccole cose, un Dio umanamente insostenibile perché nascosto nell’impotenza e nella povertà umana, un Dio che è altro rispetto agli schemi che gli uomini con la povera ragione vogliono attribuirgli, ma che egli sconvolge proponendo un mistero d’amore soprannaturale. Il Mistero del Verbo di Dio invisibile, mescolandosi al destino umano, si fa piccola creatura, che gli occhi e le mani degli uomini hanno toccato. La violenza, la prevaricazione, la furbizia, l’arrivismo sembrano occultare come non mai la forza di quella debolezza: quale Dio oggi emerge dal dolore del corpo violato? Quale uomo? Il vertice della creazione, il cuore del reale oppure il carnefice di sé e del creato? Chiedersi di Dio e dell’uomo porta ancora una volta alla domanda: chi è Gesù di Nazareth? «Quello che ci spinge alla celebrazione natalizia è il rimpianto di una fantasia perduta o il sentimento di una verità che può essere realizzata? Il Natale vela la disperazione del rimpianto o nasconde la speranza della memoria?». Ad ogni uomo compete «l’ardua sentenza», la risposta a questo interrogativo. Da essa deriva il modo di celebrare il Natale. Lo spirito ritualistico, il senso della tradizione, la fedeltà ai riti, il culto del sacro si possono esprimere con un brindisi conclusivo di un cenone e in una laude notturna, di esultanza e di speranza, al mistero che diventa visibile nel volto ineffabile di un bimbo che nasce oppure si possono soffocare in un atteggiamento per il quale la festa del Natale potrebbe tranquillamente essere la festa della Camera di commercio, o festa delle Taverne, o di Bacco, visto che si celebra con dolciumi raffinati, con il tracannar degli spumanti, con le danze più avventate: una festa da ricchi sotto il patrocinio del re dei poveri. E’ pur vero che i Magi donarono a Gesù oro, incenso e mirra e che i Romani, in occasione dei Saturnali o della festa della Brumalia, si scambiavano statuette d’argilla oppure rametti d’alloro, simbolo del sole che in quei giorni cominciava nuovamente a ricrescere sull’orizzonte dopo il “sonno” invernale del solstizio del 22 dicembre, ma oggi anche il regalo di natale, prova di affetto e sacrificio, fatto in favore delle persone care, diventa una prova di spreco, ostentazione di ricchezza, di classe sociale o peggio ancora d’abitudine… Una festa pagana (la festa del sol invictus) scelta per un importante evento cristiano (il Natale), oggi sembra ridiventata pagana, «tornata alle sue origini», ma non è così. Il Natale è la nascita di Gesù Cristo, Figlio di Dio, ma il suo significato va chiaramente oltre l’evento giungendo arricchito di generazione in generazione fino a noi; la tradizione va oltre l’occasione per diventare simbolo, cultura, vita, poesia restituendo così al Natale la sua profonda dimensione umana e religiosa. Storie, aneddoti, leggende, racconti disegnano i mille volti del Natale, filtrati attraverso la sensibilità di epoche e autori diversi, diventando così di volta in volta festa religiosa e festa laica, incontro di famiglia attorno a un cenone o a un presepe, occasione di poesia e tradizione prosaica popolare, da Jacopo da Varagine a Gabriele D’Annunzio, da Gregorio Magno a Eduardo de Filippo, da Tommaso Campanella a Italo Calvino, a Charles Dickens, (ai quali mi sono ispirato e da cui ho attinto per questo scritto) simbolo di utopia, evento di speranza, tempo di grazia.
“Perché tu sei vita fragile creatura più tenera di un fiore… / Hai sentito anche tu la fatica di nascere Dal grembo di tua madre sei apparso alla luce… / Hai toccato la terra nutrendoti al seno… Hai preferito vedere le cose dall’al di qua / Capire il tempo degli uomini… Hai conosciuto la notte e l’aurora del mattino… / Hai amato la gente e il calore delle case… Hai tradotto in alito il tuo misterioso silenzio… / Hai dato forma al pensiero che coinvolge l’infinito… / Hai creduto alla vita che è fatta di frammenti… Hai pianto sorriso come me… / Hai offerto il tuo segno all’amore più vero… Hai un nome stanotte che non oso ridire / Sei simbolo, memoria, presenza di un appiglio… Creatura se ti chiamo con fragile voce / Ridiscendi dalle stelle che nascondono Il battito assopito del tuo giovane cuore / Ti veglia il nostro amore… E in noi rinasci… / Un nome che stanotte voglio dire… / Lo sillabo con canto d’una voce Che valica i confini della terra”. Buon Natale
di don Bruno Lancuba